Il ritorno della guerra delle valute: tra dazi USA, BCE sotto pressione e il fronte BRICS in ascesa
In un mondo che rischia una nuova guerra valutaria, gli Stati Uniti giocano la carta del dollaro: una mossa audace per difendere la propria economia, ma potenzialmente esplosiva per l’equilibrio globale. Con un debito pubblico che supera il 120% del PIL e una crescente sfiducia verso la propria valuta, Washington sembra pronta a rimescolare le carte. Al centro della strategia: rafforzare il dollaro, anche a costo di destabilizzare il sistema monetario mondiale. Un’operazione che potrebbe “dimezzare” il valore reale dei debiti esteri, scaricandone il peso sugli altri attori. E l’Europa, con una BCE disarmata, rischia di essere la prima vittima.
La recente allerta della Banca Centrale Europea, riportata dall’agenzia ANSA il 7 giugno, è chiara: se i dazi americani entreranno in vigore il 9 luglio, il PIL dell’Eurozona potrebbe calare fino all’1% nei prossimi tre anni. Ma dietro il dato economico c’è una questione politica: la BCE non ha strumenti per difendere l’euro da una strategia americana mirata. L’euro, privo di una vera unione politica alle spalle, resta una valuta forte solo sulla carta. Di fronte a un dollaro sostenuto da un’azione concertata tra Tesoro, Fed e potere esecutivo, la BCE può solo gestire i tassi. Non può imporre dazi, non può negoziare su scala globale, non può agire strategicamente.
Il rischio è duplice:
– da un lato, le esportazioni europee diventano meno competitive;
dall’altro, una fuga dai titoli europei verso i Treasury americani – ancora percepiti come porto sicuro nonostante il debito record – può alzare il costo del debito nei paesi più fragili dell’Eurozona. Così l’Europa si ritrova pedina su una scacchiera disegnata altrove, stretta tra la fragilità interna e le pressioni esterne.
Mentre gli Stati Uniti giocano la carta del dollaro forte, i BRICS accelerano nella direzione opposta. Cina, Russia, India, Brasile e Sudafrica – e presto forse nuovi membri – stanno lavorando per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.
Le ragioni sono strategiche: evitare le sanzioni USA, proteggere le riserve, creare un sistema
finanziario alternativo. Negli ultimi mesi, si sono moltiplicati gli accordi bilaterali in yuan, rupie o
real. E si parla con insistenza di una moneta comune dei BRICS per gli scambi internazionali.
Se questo fronte dovesse consolidarsi, il dominio del dollaro sul commercio globale – oggi tra il
60% e il 70% – potrebbe iniziare a sgretolarsi. Un paradosso ironico: più gli Stati Uniti cercano
di rafforzare il dollaro per proteggersi, più il resto del mondo cerca di liberarsene.
Tutto questo fa parte di quello che potremmo chiamare il “grande gioco” monetario. Un confronto
silenzioso ma feroce, in cui le valute non sono solo strumenti economici, ma armi geopolitiche. E
ogni mossa ha un obiettivo preciso. Gli Stati Uniti mirano a rafforzare il dollaro per attrarre capitali, contenere l’inflazione e – indirettamente – trasferire agli altri il peso reale del proprio debito pubblico.
La Cina punta a internazionalizzare lo yuan, offrendo ai partner globali un’alternativa stabile e meno esposta al rischio politico. L’Europa, invece, sembra senza strategia: troppo fragile per lanciare un euro globale, troppo dipendente per staccarsi dagli USA, troppo divisa per agire come blocco coeso. Il risultato è una tensione latente che potrebbe sfociare in una nuova guerra valutaria. Ma stavolta, non ci saranno trattati come quello di Plaza del 1985 a bilanciare le forze in gioco. Le alleanze sono più fluide, i rischi più globali, gli strumenti più sofisticati.
Il rafforzamento del dollaro non è solo un fatto di finanza: è una manovra strategica per rimettere in equilibrio una superpotenza oberata di debiti. Ma ogni mossa ha un prezzo. E se a pagarlo saranno prima l’Europa e poi le economie emergenti, il rischio è quello di innescare un effetto domino globale. Il grande gioco è iniziato. La posta in palio non è solo il valore di una moneta, ma il futuro dell’ordine economico mondiale.
Di Lorenzo Delussu




